Da ragazzina non litigavo mai con nessuno. Era quella che
non rimaneva invischiata nelle trame delle amicizie e delle vendette: se
un compagno smetteva di parlarmi di colpo era già tanto che me
n'accorgessi e, anche allora, una scrollata di spalle risolveva il
dilemma. Drammi esistenziali li ho conosciuti solo quando mi sono
innamorata, nella lucida follia d'avvicinarmi così tanto a un altro
essere umano da permettergli di ferirmi, da far dipendere la mia
felicità da lui. Eppure, persino in quei momenti, sapevo che era un
gioco. Un'esperienza, un viaggio da intraprendere, una strada da
percorrere insieme fino al prossimo crocevia: per salutarsi, infine,
senza rancore.
C'è un nocciolo di montaliana indifferenza in me che a volte mi spaventa, a cui ho dato battaglia con tutte le armi a mia disposizione: la passione, la curiosità, l'edonismo.
Eppure saliva prepotente in me ogni volta quella voce, a salvarmi forse, a dannarmi spesso: il solenne e indiscutibile senso di noncuranza.
Per anni ne ho dato la colpa alla malattia, alla consapevolezza della caducità che ho sperimentato troppo presto e m'è rimasta dentro come una febbre. E m'ha messo addosso una frenesia di vivere, sì, ma solo per me stessa: una leggerezza infinita, di chi ha combattuto solo per scoprire che non c'è niente per cui valga la pena andare in guerra.
In questa vita solo a metà, la scrittura è diventato il porto franco, il calderone alchemico dove impastare i drammi che osservavo senza esperire, che pur provavo senza affogarci dentro.
La scrittura m'ha restituito l'attaccamento alla realtà, mi ha regalato qualcosa a cui tenere davvero, qualcosa che non avrei permesso a nessuno di portarmi via.
Così, ho sanato la frattura e ho smesso di far finta che importasse qualcosa anche a me.
C'è gioia anche così, nel vivere per raccontarlo.
C'è un nocciolo di montaliana indifferenza in me che a volte mi spaventa, a cui ho dato battaglia con tutte le armi a mia disposizione: la passione, la curiosità, l'edonismo.
Eppure saliva prepotente in me ogni volta quella voce, a salvarmi forse, a dannarmi spesso: il solenne e indiscutibile senso di noncuranza.
Per anni ne ho dato la colpa alla malattia, alla consapevolezza della caducità che ho sperimentato troppo presto e m'è rimasta dentro come una febbre. E m'ha messo addosso una frenesia di vivere, sì, ma solo per me stessa: una leggerezza infinita, di chi ha combattuto solo per scoprire che non c'è niente per cui valga la pena andare in guerra.
In questa vita solo a metà, la scrittura è diventato il porto franco, il calderone alchemico dove impastare i drammi che osservavo senza esperire, che pur provavo senza affogarci dentro.
La scrittura m'ha restituito l'attaccamento alla realtà, mi ha regalato qualcosa a cui tenere davvero, qualcosa che non avrei permesso a nessuno di portarmi via.
Così, ho sanato la frattura e ho smesso di far finta che importasse qualcosa anche a me.
C'è gioia anche così, nel vivere per raccontarlo.
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