martedì 7 gennaio 2014

divinità minori


Per chi scrive il margine tra realtà e finzione è un filo labilissimo, un confine continuamente violato, perennemente in mutamento.
Se è difficile essere scrittori puramente immaginifici è altrettanto improbabile il contrario. Visto che persino Tolkien, l'inventore di un intero sistema linguistico e di una cosmogonia, aveva romanzato alcuni episodi della sua vita (l'amore tra Lúthien e Beren si ispira alla sua relazione con la moglie), mi sembra difficile credere che chi racconta storie “vere”, autobiografiche o meno, non si lasci scappare ogni tanto la mano, che la tentazione di farsi demiurgo non trovi una forma in cui incarnarsi, anche perché per raccontare la realtà senza distorcerla dovremmo possedere davvero gli occhiali impassibili di una divinità.

Ma gli scrittori non sono dèi, al limite vampiri: sanguisughe che dopo aver divorato se stessi passano a succhiare dagli altri la linfa necessaria. Che sia una conversazione orecchiata sull'autobus o la cronaca nera di un giornale, poco cambia. Spesso sono solo le dinamiche che hanno osservato negli altri: coltivano il dono di stanare i piccoli fallimenti e le grandi rivelazioni, le bugie e i gesti di coraggio, le meschinità più evidenti e i dolori più dissimulati.
A volte possono essere addirittura i segreti delle persone che li amano.

Dissi: – Le cose cambiano aspetto a volte.
–  È vero – disse la donna. – È la gente a cambiarle. Vuoi sapere cosa diceva sempre Alfrida di te?
Ecco. Ora sapevo che stava per arrivare.
– Che cosa?
– Diceva che eri furba, ma che non sei mai stata furba come credevi.
Mi costrinsi a guardare dritto nella faccia buia in controluce.
Furba, sei troppo furba, non fare la furba.
Chiesi: – Nient'altro?
– Diceva anche che eri senza cuore. Parole sue, non mie. Io non ce l'ho di certo con te.


In “Mobili di famiglia” di Alice Munro la protagonista utilizza le confessioni della cugina di suo padre per scrivere un racconto. È solo una frase buttata là dopo aver lavato i piatti, eppure quando la ascolta qualcosa le scatta in testa: il cassetto si apre e le parole si depositano lì, diventano di sua proprietà.
La cugina non le perdonerà mai di averle scritte, di aver violato il patto implicito della confidenza, ma la ragazza non capisce davvero cosa ha fatto di male, perché gli altri devono rimanere feriti da come funziona il suo cervello, dalla vita che ha scelto di vivere.

Scattava un pericolo, ogni volta che ritornavo a giocare in casa. Era il pericolo di guardare la mia vita attraverso gli occhi che non fossero i miei. Di vederla come una crescente matassa di filo spinato fatto di parole intricate, angosciose, sconcertanti, messe a confronto con la cornucopia di cibo, di fiori, di lavori a maglia, della fatica domestica delle altre donne. Diventava più duro sostenere che ne valesse la pena.
La mia pena sì, forse, ma quella degli altri?

E se fosse questo senso di colpa latente l'unica forma di rispetto possibile per i vampiri?

Me lo chiedo in questi giorni in cui sto leggendo “Vite che non sono la mia” di Carrère e sento montarmi dentro una rabbia che non capisco. Il libro è un colpo alla nuca che ti priva dell'aria, cupo e tristissimo, scritto davvero molto bene: ma non è certo questo il punto. Carrère parte dallo tsunami a cui si è ritrovato ad assistere con la sua famiglia e passa a descrivere la vita della sorella della compagna, morta di cancro pochi mesi dopo, e del suo collega giudice, sopravvissuto a un tumore quando era giovane.
Qui il vampirismo è portato alle estreme conseguenze e sento che passa il segno: all'inizio non riuscivo a spiegarmi il perché, poi ci sono arrivata.
C'è sempre qualcosa di osceno nell'appropriarsi delle vicende degli altri, anche quando sono consenzienti, e lo dico a maggior ragione visto che sto scrivendo un'opera così anche io.
Allora torniamo a parlare di confini: qual è il punto da non oltrepassare, se esiste?
Sicuramente è meglio evitare di parlare di se stessi usando le tragedie accadute a qualcun altro, non essere così presuntuosi da sostenere di avere compreso sofferenze che non abbiamo sperimentato, non fare l'errore di accostare disgrazie come perdere un figlio o morire di cancro a problemi relazionali e psicologici, semplicemente perché non sono la stessa cosa.

Non si fa e non basta dipingere i nostri personaggi realmente esistiti come eroi per farsi perdonare. Carrère cerca di tutelare le persone di cui scrive dipingendole come esseri straordinari, molto migliori di lui, sono tutti esempi fulgidi: i genitori che hanno perso la bambina avevano una vita saggia ed encomiabile, tutti quanti i protagonisti avevano sposato l'anima gemella (statisticamente improbabile, non trovate?).
Questa glorificazione riesce solo a rendere il libro meno autentico e non salva Carrère dalla sua mancanza di rispetto più grande, che non è mettere su carta quelle vite ma volerci per forza infilare dentro troppo di suo. 

C'è sempre una via di mezzo tra la libertà di scrivere quello che vogliamo e la necessità di tutelare gli altri, di non farli soffrire. Non si tratta di scegliere che tipo di scrittore desideriamo essere ma di decidere che tipo di persona vogliamo diventare.
La differenza è un altro confine sottile: qualcosa che non si può spiegare, ma solo toccare con la mente.

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