Quando sono andata la prima volta in terapia non è stato di mia volontà, mi hanno praticamente costretto a prendere quell'appuntamento che forse mi ha salvato la vita e sicuramente me ne ha restituito una degna di essere vissuta. Mi eclissavo dietro la convinzione che non ci si potesse fidare degli psicoterapeuti (dallo psichiatra mi ci avrebbero dovuto trascinare legata) ma in realtà credevo di essere oltre ogni aiuto. Volevo solo smettere di soffrire: anni dopo avrei letto Foster Wallace paragonare il suicidio al salto da un grattacielo in fiamme, sai che morirai ma è comunque meglio che bruciare vivo. Io so di essermi avvicinata a provare quel tipo di dolore e so di aver preso lo slancio: quell'anno mentre cercavamo di sopravvivere a un lutto impossibile da metabolizzare, mentre mio padre lottava contro il cancro e mio nonno moriva per un errore medico in una sala operatoria io mi alzavo in punta di piedi e gettavo un'occhiata speranzosa a quello che c'era dall'altra parte dal cornicione. Sembrava qualcosa di promettente: una liberazione.
Nessuno ha mai saputo quanto davvero io stessi affogando, quanto la zona d'aria intorno a me si stesse restringendo: lo nascondevo alle persone che amavo per non farle preoccupare e agli altri per non mostrare la mia debolezza. In fondo ero convinta che tutti mi avrebbero detto che stavo esagerando.
Persino mentre scrivo adesso, dopo anni di terapia e altri di convivenza funzionale con la depressione, ho ancora il timore che leggendomi qualcuno pensi: ma quanto la fa lunga. Anzi, so che è così, so che sta succedendo, so che succede ogni giorno a tante persone che hanno un disagio psichico e non trovano il supporto per cercare una cura perché superata una certa linea non hai la forza per chiedere aiuto.
Oggi mi sono seduta di nuovo sulla poltroncina della mia terapeuta e mi sono sentita al sicuro, come quando da piccola prendevo sonno ascoltando le voci dei miei genitori dalla cucina, guardando quel filo di luce che penetrava dallo spiraglio della porta, nella certezza che non mi avrebbero lasciata sola.
C'è ancora tanto pregiudizio, tanta negazione che forse è paura di ammettere che esistono malattie che nessun macchinario può rilevare ma non per questo sono meno concrete. Se non li supereremo ci sarà sempre qualcuno che penserà che quel volo alla fine sia l'unica soluzione possibile.
Nessuno ha mai saputo quanto davvero io stessi affogando, quanto la zona d'aria intorno a me si stesse restringendo: lo nascondevo alle persone che amavo per non farle preoccupare e agli altri per non mostrare la mia debolezza. In fondo ero convinta che tutti mi avrebbero detto che stavo esagerando.
Persino mentre scrivo adesso, dopo anni di terapia e altri di convivenza funzionale con la depressione, ho ancora il timore che leggendomi qualcuno pensi: ma quanto la fa lunga. Anzi, so che è così, so che sta succedendo, so che succede ogni giorno a tante persone che hanno un disagio psichico e non trovano il supporto per cercare una cura perché superata una certa linea non hai la forza per chiedere aiuto.
Oggi mi sono seduta di nuovo sulla poltroncina della mia terapeuta e mi sono sentita al sicuro, come quando da piccola prendevo sonno ascoltando le voci dei miei genitori dalla cucina, guardando quel filo di luce che penetrava dallo spiraglio della porta, nella certezza che non mi avrebbero lasciata sola.
C'è ancora tanto pregiudizio, tanta negazione che forse è paura di ammettere che esistono malattie che nessun macchinario può rilevare ma non per questo sono meno concrete. Se non li supereremo ci sarà sempre qualcuno che penserà che quel volo alla fine sia l'unica soluzione possibile.
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